Spetta allo stadio di San Siro a Milano accogliere l’unica data italiana del “Because we can tour” dei Bon Jovi: tre ore e mezza di concerto mentre il sole tramonta e si alza in cielo la luna. La serata comincia alle 7 e mezza, con gli inglesi These Reigning days che aprono lo show mentre lo stadio si riempie di migliaia di spettatori – alla fine della serata saranno 50.000. Sono da poco passate le venti e trenta quando arriva la band. Un’enorme Cadillac troneggia sulla testa della band, circondata da tre maxi schermi e da un tripudio di luci colorate – a ricordare l’immaginario americano fino al midollo del gruppo e del leader.
Mentre lo stadio esplode in un boato, i fari della macchina, che sta portando in giro per il mondo i Bon Jovi, si accendono e si spengono seguendo il ritmo della batteria. E quando l’ultima scintilla viene intrappolata nel sorriso magnetico di Jon Bon Jovi la band attacca “That’s what the water made me”. Sul palco ci sono Tico Torres e David Bryan, poi Phil X alla chitarra (che ha recentemente preso il posto di Richie Sambora, in rotta con il leader), Hugh McDonald al basso e Bobby Bandiera alla chitarra ritmica. Jon saltella, sempre sorridendo e nutrendosi degli applausi del suo pubblico.
La seconda canzone è un tuffo nel 1986: “You give love a bad name”. Il pubblico canta a squarciagola: la sensazione è che chi non conosce questa canzone a memoria non abbia il diritto di assistere al concerto. E questo è tutto ciò di cui ha bisogno Jon per dare il meglio di sé. In “Raise your hands” i fan alzano le mani a tempo come incantati: la meticolosità del ballo di gruppo si fonde con la potenza del rock. Si prosegue risalendo agli esordi della band con “Runway”.
È ormai tramonto inoltrato, tutto si fa buio e il rombo di un motore introduce “Lost highway”. Jon è scatenato, David concentratissimo e Tico, con aria da duro, si lascia andare un sorriso. “Born to be my baby” e “It’s my life” esaltano definitivamente i fan, tanto che la band si ferma per applaudirli a sua volta. Ma il momento clou deve ancora arrivare. Il fan club italiano ha preparato una coreografia da migliaia di bandierine dell’Italia e bandierine colorate che si alzano al cielo dal parterre e dagli spalti, quando i Bon Jovi attaccano “Because we can”. “Wait!” urla il frontman. Mette le mani sui fianchi e si guarda attorno estasiato. Quando la canzone finisce, Jon ha una mano sul cuore ed è emozionato quasi come fosse la prima volta che riempie uno stadio.
È il turno di “What about now”, canzone impegnata, tratta dall’album omonimo uscito questo inverno; i maxi schermi mostrano un soldato che traccia il segno della pace. In “We got it goin’ on” c’è spazio per l’assolo di Phil X e per un bis del ritornello cantato dal pubblico che batte le mani. Jon, con i jeans e la giacca di pelle con bandiera a stelle e strisce, afferra un paio di maracas e tiene il ritmo in “Keep the faith”. Seguono “Amen”, “In these arms”, “Captain Crash & the beauty queen from Mars” e “We weren’t born to follow”. Al grido “It’s all right” il pubblico si prepara per “Who says you can’t go home”: accelerate, pause e assoli di voce testimoniano che la band è in gran forma, coesa e, dopo tanti anni, sempre piena di energia.
La prima parte dello show si conclude con “Rockin’ all over the world” (cover di John Fogerty), “I’ll sleep when I’m dead” (cappelli da cowboy sulle teste di Jon e David) e “Bad Medicine”. Pochi minuti e la Cadillac riprende a rombare. David accarezza le tastiere e le note si fondono con la calda voce del frontman che ad occhi chiusi canta “Dry County”.
Dopo “Someday I’ll be saturday night” e “Love’s the only rule” c’è “Wanted dead or alive” e il fan club ripropone il proprio omaggio. “Undivided”, “Have a nice day”, “Livin’ on a prayer”: Jon Bon Jovi dimostra, ancora una volta, di essere un grandissimo performer che sa tanto innalzarsi sopra il pubblico quanto diventare tutt’uno con esso.
Sono le ventitré e il concerto potrebbe terminare: ma il frontman presenta i musicisti e, dopo aver parlato fitto fitto con loro, invece di uscire di scena dedica allo stadio le parole “Never say goodbye” pronto a ricominciare con “Always”. San Siro sembra diventata la nuova casa dei Bon Jovi che si sentono acclamati, amati. “One more!” dice Jon e fa il bis di “These days”. Poi di nuovo le mani sui fianchi a guardare il pubblico: cinquantamila voci addosso a lui, centomila mani che si alzano. È un sorriso semplice e genuino quello sul suo volto: “Choose the next song: “Bed of roses”? “I’ll be there for you”?…”. Su un cartello, che emerge dalla folla, si richiede una canzone: Jon lo vede e lo asseconda. L’ultimo brano dello show è “This ain’t a love song”. Ah, non lo è?
di Marta Falcon
Fantastica review e foto! Io sono recentemente stata ad un festival a Roma…se volete passate, Ho spostato il mio blog "Just a Flea" ad un nuovo indirizzo 🙂
http://filhdiary.blogspot.it/
Vi aspetto!