Ciao Stefano, “Piccolo e Malato” è il tuo nuovo ep che uscirà il 29 settembre, a due anni di distanza dal tuo primo album, cosa è cambiato nel frattempo?
Tantissime cose. Faccio prima a dirti cosa non è cambiato: la necessità di esprimermi attraverso la musica.
Hai vissuto per molti anni a Bologna, come ti sei trovato? Qual era il posto in cui ti rifugiavi per scrivere canzoni?
Amo Bologna, amo la sua luce, le sue vie, il suo entusiasmo. Ho abitato in tante case, ed è sempre in casa che trovo l’intimità per scrivere. Ma più che scrivere, per suonare. Non decido mai di scrivere una nuova canzone, arriva da sola, suonando.
E poi ti sei trasferito a Barcellona, da quei colori e dalle forme caleidoscopiche di Gaudì hai trovato nuova ispirazione?
Tutto di Barcellona è rimasto dentro di me. È una città che mi ha fatto crescere. Sono quello che sono anche grazie a lei. La sua ispirazione è indiretta, non si vede in quello che faccio, ma c’è sempre.
Ai tempi avevi litigato con l’etichetta NoiseVille, cos’era successo?
Non ho mai litigato con NoiseVille. Mi hanno semplicemente scaricato senza alcuna comunicazione.
Abbiamo ascoltato il tuo nuovo ep, a tratti più che cantare ci sembra che tu abbia il bisogno di raccontare e che la musica venga lasciata in secondo piano: quanto contano per te i testi? Da dove parti per scrivere una canzone?
Testo e musica per me hanno la stessa importanza. Per comunicare quello che sento con le parole ho bisogno di quella particolare melodia e di quella combinazione di accordi. Altrimenti cade tutto. Per scrivere parto dalle corde della mia chitarra, dal suono. Quello che succede dopo non lo so, penso sia una specie di reazione chimica tra sentimenti, parole e musica.
C’è magia nello scrivere canzoni? Ed è un mago il cantautore che solo con la sua chitarra sa attirare l’attenzione di un pubblico?
C’è magia quando, attraverso una tua creazione, riesci a strappare un’emozione anche solo a una persona, o anche solo a te stesso.
Le 5 canzoni di “Piccolo e malato” non sono nate tutte recentemente, ci racconti un ricordo per ogni una?
È vero, sono canzoni piuttosto antiche, ma anche quelle a cui sono più legato.
“Serenata ai grilli” e “L’amaro” le scrissi per Il Re dei Boschi, progetto che creai nel 2007 con Le Jacobin de La Scapigliatura, a Cremona, città d’origine di entrambi. Era un periodo strano, venivo da una batosta amorosa e un’insoddisfazione esistenziale che non mi avrebbe abbandonato, e il sabato mattina trasformavo in musica tutto questo nella cantina di Le Jacobin, assieme a lui. Era molto bello. Sembrava stessimo forgiando qualcosa di speciale.
“Roma” mi uscì un giorno dalla chitarra per liberarmi da una storia con una ragazza che viveva in quella città. La suonavo col mio gruppo, i Sydrojé, coi quali suonavo anche “Una pianta carnivora mi ha detto che non mi ami più”.
“Piccolo e malato” era un po’ il mio manifesto, quello che mi sentivo: incapace di stare al mondo. Oggi non è poi così diverso.
Per registrare queste canzoni ho portato in studio tutti: Le Jacobin e i Sydrojé. Senza di loro non sarebbe stato lo stesso.
A chi ti riferisci quando racconti delle persone che non sanno far altro che dirti che quella che stai percorrendo non è la strada giusta per te?
Praticamente tutti pensano che sia meglio costruirsi un futuro più sicuro. Anche a me capita di aver paura, paura di fallire e di deludermi. Ma non posso essere nient’altro che io. Farò sempre quello che sento di fare, a prescindere dai risultati.
“Piccolo e malato” è una richiesta di aiuto o la memoria dopo un percorso? Te la prendi con gli dèi o con te stesso?
Tutto quello che canto è una richiesta d’aiuto, o forse un grido, una protesta, una lamentela. Ho bisogno di elaborare la mia difficoltà di far parte di questo mondo. Questa cosa non è mai cambiata.
Con chi ti piacerebbe duettare o collaborare?
Ci sono molti artisti italiani che stimo: Edda, Francesco Bianconi, Manuel Agnelli, Pierpaolo Capovilla, per citarne solo alcuni.